Prosocialità

La prosocialità riguarda tutto ciò che è fatto gratuitamente per gli altri e che riesce ad apportare un beneficio, senza aggredire o far del male.

Per intenderci, quindi, se per difendere qualcuno che sta per essere aggredito/o picchiassimo la persona aggressiva non potremmo parlare di prosocialità.

La prosocialità è una modalità relazionale che può essere diffusa con i gesti più semplici, come un sorriso, un gesto di gentilezza, offrire aiuto in un momento di bisogno, offrire protezione e riparo, mostrarsi solidali, ecc.

I comportamenti usati per esprimerla, prosociali, possono essere attuati da persone o gruppi, a beneficio di altre singole persone o gruppi.

Di seguito, proviamo a presentare come nasce la ricerca sulla prosocialità e perchè è importante diffondere questa modalità relazionale con interventi concreti.

Come inizia la ricerca sulla prosocialità?

Un fatto storico fu di cruciale importanza: l’uccisione di Catherine “Kitty” Susan Genovese davanti a 38 testimoni che non reagirono.

Il 13 marzo del 1964, mentre stava rientrando di notte a casa, Kitty venne affiancata sotto casa da un malintenzionato.

Secondo un’inchiesta del New York Times, che ricostruì i fatti, la ragazza urlò e venne sentita dai vicini che accesero le luci dei loro appartamenti, spaventando temporaneamente l’aggressore.

Per ben due volte l’assalitore si allontanò da Kitty, tornando indietro a più riprese per straziare e pugnalare la ragazza. In seguito, rivelerà alla polizia che temeva che le urla della ragazza avrebbero fatto intervenire i vicini. Non vedendo reazioni concrete, si era sentito più sicuro e autorizzato.

Nonostante la protezione offerta dalle mura domestiche, la prima telefonata alla polizia fu compiuta da un anonimo dopo oltre 30 minuti. Quando giunsero i soccorsi, Kitty era già morta.

Ci si chiese perché nessuno intervenne concretamente? Perché, nonostante la protezione offerta dalle mura domestiche, tutti i testimoni esitarono nel chiamare subito la polizia?

Gli psicologi Bibb Latané e John Darley* eseguirono una serie di esperimenti per giustificare il processo di scelta individuale che conduce ad emettere un atto di aiuto o, al contrario, a non intervenire, dando avvio ai primi studi sulla prosocialità.

Perché educare alla prosocialità?

Il fatto accaduto a Kitty e le prime ricerche fecero capire l’inaguatezza delle pratiche punitive (tardive) e la necessità di pratiche di crescita sociale legate alla promozione di relazioni adeguate. Prima di allora ci si occupava del contenimento dell’aggressività o della sua canalizzazione ma ci si rese conto che questo non basta.

A livello culturale, considerando ciò, c’è bisogno di affrontare tre questioni che sottolineano l’importanza di educare le persone alla prosocialità.

  • Nonostante siano passati quasi 60 anni dagli studi sulla prosocialità, a livello culturale non c’è ancora stata un’evoluzione. Manca una formazione umana che aiuti le persone a vivere in armonia, anzichè aggredirsi o farsi del male. Questo potrebbe essere un fattore importante anche per evitare conflitti estesi, come le guerre.
  • Manca un’ottica attenta alla prevenzione. Ancora oggi, molte tragedie seguono la dinamica della tragedia di Kitty e potrebbero essere prevenute.
  • Manca la consapevolezza, a livello globale, che preso o tardi ogni persona si trovarà in condizione di fragilità, perché si tende ad invecchiare o ad ammalarsi. Se non si coltiva il senso di umanità delle persone, in modo che siano disposte a rispettarsi e trattarsi bene con sensibilità, anche se le persone non si aggrediranno potrebbero rstare indifferenti ai problemi e ai dolori altrui. Il risfhio forte, per ogni persona, è di vivere in un mondo di indifferenza che aggiungere malessere al malessere.

Cosa si può fare per migliorare la prosocialità?

È lecito pensare che la scuola possa favorire la formazione umana, oltre che intellettuale, favorendo lo sviluppo concreto di comportamenti prosociali e l’esercizio della prosocialità. Di fatto, fino ai 14 anni circa, nella normativa italiana questo è uno degli obiettivi proposti che, tuttavia, fatica a trovare applicazioni pratiche.

Inoltre, va immaginata un’impostazione sociale diversa che sia fortemente orientata alla promozione del benessere e alla prevenzione dei comportamenti aggressivi e violenti. Stanno nascendo molte leggi contro ogni forma di violenza che colpisce i minori, le donne, il personale sanitario, il personale dei treni, il personale docente, ecc. Bisogna riconoscere, tuttavia, che le persone non sono oggetti. Bisognerebbe preservarle, anziché pensare a risarcirle dopo che hanno subito una violenza. In molti casi, soprattutto dopo una morte, nessun risarcimento sarà mai abbastanza equo.

Senza comportamenti prosociali, dunque, la società è destinata all’indifferenza o all’aggressività.
In un periodo storico caratterizzato dall’invecchiamento della popolazione, dove gli individui tendono a divenire sempre più vulnerabili, aggressività e indifferenza vicendevoli potrebbero esser pagate a caro prezzo.

Nel caso in cui la questione sia di tuo interesse, puoi approfondire la questione con i vari post sulla prosocialità e i comportamenti prosociali.

Nota

*LATANÉ, B., & DARLEY, J. M. (1970). The unresponsive bystander: why doesn’t help? Englewood Cliffs, New Jersey: Prentice-Hall Inc.