Attraverso diverse domande l’articolo tratta l’importanza della coesistenza, vale a dire della capacità di coabitare in uno stesso luogo o pianeta, perseguendo il proprio benessere senza danneggiare gli altri.
Tale questione viene affrontata perchè sembra avere risvolti in ambito educativo e scolastico, soprattutto se si considera la scuola come uno dei primi e più importanti agenti di maturazione umana e sociale.
Cosa non funziona nel nostro attuale modo di fare?
Una possibile risposta alla domanda è legata al fatto che gradualmente ci abituiamo a percepire come normale tutto quello che quotidianamente vediamo, anche quando la normalità è disfunzionale e violenta, anche quando la normalità è l’intolleranza, anche quando la normalità è dolore e sofferenza inflitta.
Poiché la violenza ed i drammi fanno audience, possiamo quindi pensare che gradulamente, come esseri umani, ci stiamo abituando sempre più a questi fenomeni, fintanto che non ci toccano o riguardano direttamente.
L’impressione è che questo vada ad incidere sulla qualità della vita di ciascuno, stimolando sempre di più la nascita di azioni normative, fondate su leggi nazionali ed internazionali, che però da sole non bastano per garantirci un reale vissuto di benessere.
Teoricamente, infatti, le leggi ci costringono ad abbandonare ogni idea connessa ad azioni aggressive che sfociano in escalation estreme, soprattutto su larga scala (grazie anche ai disastri causati dagli armamenti nucleari, che hanno sottolineato come la razza umana ha le capacità di distruggersi da sola attraverso la guerra e gli strumenti per farlo). Tuttavia, l’elevato numero di situazioni disfunzionali che possiamo osservare e conoscere a livello microterritoriale (come può essere la vita in una famiglia o in un a classe) ed a livello macroterritoriale (come può essere a livello di rapporto tra Stati), ci sottolinea che abbiamo bisogno di trovare soluzioni diverse, facendo tesoro dei nostri errori e dei nostri successi passati.
Cosa può servire?
Servono misure che non frammentino la relatà in casi diversi, perché ogni atto in cui vi è la sottomissione dell’altro è un atto di violenza.
Spesso, infatti, osserviamo gesti che sottolineano una certa intolleranza nei confronti dell’altro, percepito come diverso o estraneo. Siamo spettatori delle tensioni che si sviluppano tra singoli o gruppi e tra le diverse culture e sottoculture (come può essere anche la cultura tipica delle classi sociali o delle squadre di calcio, delle famiglie, di diversi Paesi, di diverse cosche, di diverse Religioni, ecc.). Solo quando l’intolleranza e la sofferenza sfociano in tragedia ed assumono un’etichetta come “femminicidio”, “suicidio per atti di omofobia”, “suicidio per atti di bullismo”, “violenza del branco”, “infanticidio”, “morte nel tentativo disperato di cambiare vita”, “guerra” o altre diciture connesse a conseguenze estreme ed innegabili sembra che gli animi si destino. Ma solo quando il dramma porta audience.
Servono quindi interventi che promuovano la cultura del miglioramento progressivo, non del cambiamento casuale o fine a se stesso. Serve un miglioramento dove parole come prosocialità e coesistenza non restino termini vuoti ma trovino applicazione concreta.
Servono alternative e, una di queste, è l’educazione alla coesistenza, sia per i giovani che per gli adulti.
Perché questo?
Dal momento che coabitiamo (o coesistiamo) tutti all’interno di uno stesso pianeta, ed in qualche modo questo ci rende interdipendenti, o se si preferisce legati gli uni agli altri, è nell’idea della globalizzazione che possiamo leggere uno stimolo per compiere come esseri umani un grande balzo evolutivo, per percepirci e comportarci tutti come cittadini del mondo, pur conservando la nostra individualità.
Abbiamo quindi bisogno di imparare a coesistere e di pensare che questo non avverrà casualmente, perché servono azioni concrete per fare in modo che i desideri si realizzino (soprattutto se si tratta di desideri importanti).
Se affrontate adeguatamente, infatti, le sfide della globalizzazione ci consentiranno di fare tutti parte di un’unica e singola comunità umana e, soprattutto, di affrontare a livello cooperativo le questioni sociali locali e planetarie (assenza di risorse, carestie, inquinamento, sopravvivenza di altre specie animali, ecc.).
I nuovi scenari, inoltre, ci suggeriscono che ci troveremo sempre più spesso a dover gestire problemi che nascono dalla globalizzazione e, di conseguenza, a dover trovare sempre più spesso soluzioni ottimali per la nostra coesistenza planetaria.
Ovviamente, dire che avremo a che fare con problemi non comporta necessariamente conseguenze negative.
Le reazioni alla globalizzazione ed alla diversità sono una scelta, non l’unica possibilità. Le nostre reazioni non devono essere necessariamente di chiusura in sé, di sbarramento dei confini del territorio che si abita o di sbarramento del territorio in cui altri vengono costretti ad abitare senza possibilità di appello alcuno (ghettizzazione).
Manca tuttavia una visione più organica. Manca l’impegno ad abbattere ogni forma di violenza (non solo singoli aspetti), sostituendola con atteggiementi più funzionali.
Tuttavia, abbiamo la capacità di trovare alternative funzionali! In questo scritto si sostiene che tali capacità potrebbero essere più efficaci se, anziché considerare una miriade di aspetti specifici che frammentano gli interventi, ci si focalizzasse su un’aspetto generale: la coesistenza.
Cristian P.