L’aiuto: una introduzione

L’aiuto è una delle modalità fondamentali con cui esseri umani ed animali si esprimono, relazionandosi.

Parlando di esseri umani, l’aiuto può essere definito come una condotta volontaria che viene attuata da una o più persone con lo scopo di produrre un beneficio verso altri individui o gruppi. La sua realizzazione può avere effetti benefici dati dall’aumento di benessere o dalla riduzione o eliminazione di conseguenze negative delle situazioni in cui le persone che lo ricevono possono essere inserite. Senza di esso la nostra vita sulla terra sarebbe assai più difficile, se non addirittura impossibile.

Data la definizione, le condotte di aiuto possono essere di varia natura (materiale, fisico, emotivo, ecc…) e mirare al miglioramento di una condizione fisica, psicologica e/o psicofisica dell’individuo o degli individui sostenuti. Generalmente, tali condotte possono essere distinte in base a due grandi categorie situazionali alle quali appartengono: l’aiuto in situazioni ordinarie e quello in situazioni di rischio o emergenza[1].

Per entrambe le situazioni, le teorie che tentano di spiegare le motivazioni dell’aiuto sono molteplici. A seconda dell’orientamento che seguono, tali teorie si preoccupano di focalizzare maggiormente l’attenzione su diversi punti: gli aspetti evolutivi filogenetici; i fattori situazionali che spingono il soggetto all’intervento; la condizione psicologica di colui che emette l’aiuto; le dinamiche che si sviluppano nell’interazione tra individui; le capacità e caratteristiche possedute da coloro che prestano il proprio aiuto o lo ricevono. Qualunque sia l’orientamento seguito, pur evidenziando nelle loro concezioni aspetti diversi, i vari Autori sono tuttavia concordi su due elementi fondamentali: l’aiuto può essere attuato potenzialmente da chiunque e, in seconda analisi, la frequenza e le modalità di attuazione dell’aiuto possono essere apprese[2].

Da un punto di vista evolutivo, facendo riferimento alle frequenze di attuazione dei comportamenti di aiuto, Staub, Midlarsky e Hannah [3] sottolineano che, a seconda dell’età del soggetto che apprende, tende a variare anche la disponibilità a fornire l’aiuto. I suddetti autori, hanno constatato che tale disponibilità inizia ad aumentare dal periodo che va dagli anni dell’asilo fino alla metà circa del percorso di studio della Scuola Primaria. A partire da questi anni, solitamente si assiste ad un decremento della disponibilità ad aiutare che dura fino alla prima adolescenza. In seguito, si registra un ulteriore incremento fino alla prima età adulta. Il fenomeno, anche se apparentemente curioso, è legato al fatto che le capacità di fornire aiuto passano da una fase di emissione stereotipata ad una fase dove il controllo è più raffinato e vi è la necessità anche di imparare ad inibire la propria tendenza ad aiutare, per esserne maggiormente padroni e coscienti (in molti casi si aiuta anche quando ciò non è conveniente o, addirittura, è pericoloso per sé). In ambito educativo, quindi, andrà posta attenzione a questi ritmi di manifestazione, accompagnandoli dolcemente e rispettandoli, senza etichettarli con aggettivi negativi.

Nonostante chiunque possa essere un potenziale donatore di aiuto, appare evidente che non tutti riescano fornirlo con la stessa efficacia. A proposito, sottolineando l’andamento evolutivo della capacità di aiuto, Zan-Waxler e Radke-Yarow [4] fanno notare che il comportamento di aiuto attuato dai bambini o dai giovani può essere meno valido rispetto a quello degli adulti perché, oltre ad avere meno potenzialità in termini di denaro, conoscenze, prestanza, ecc…, dal punto di vista cognitivo essi spesso non riescono a compiere ancora adeguate elaborazioni mentali tipiche degli adulti, in cui sono maggiormente integrate capacità cognitive ed emotive. Ciò è particolarmente vero nelle situazioni di emergenza o pericolo. Intervenendo sullo stesso argomento, Piliavin e colleghi [5] tendono a sottolineare che i comportamenti di aiuto attuati dai bambini e dai giovani possono essere meno efficaci di quelli degli adulti anche perché, in genere, essi non riescono a prendere in considerazione alcuni elementi importanti del punto di vista dell’altro, a causa del fatto che possono essere emotivamente meno competenti rispetto agli adulti.

Va però detto che, carenza di abilità, mancanza di adeguato autocontrollo e, soprattutto, ignoranza dei bisogni altrui (o se si preferisce scarsa empatia), possono essere elementi che si ritrovano anche negli adulti. Questi elementi, quando presenti, possono compromettere la qualità dell’aiuto fornito dai soggetti adulti [6].

In base a quanto detto, se pur con brevità, è possibile sottolineare che l’aiuto si configura come un fenomeno articolato ed assai complesso che risente delle diverse circostanze in cui è richiesto e delle abilità di chi lo offre. Per questo, il processo di aiuto è un fenomeno non unitario che ammette lo studio integrato di più approcci.

Per i motivi finora visti, è evidente la grande importanza rivestita dall’educazione (familiare, scolastica, degli adulti di riferimento, ecc…) nel favorire lo sviluppo di individui che siano in grado di saper aiutare gli altri con competenza, oltre che di saper ricevere l’aiuto di cui necessitano per la loro esistenza. Il benessere del nostro ambiente sociale può dipendere anche dal grado di competenza sviluppato da ciascuono nel fornire un aiuto efficace.

 


[1]JACKSON, M., & TISAK, S. (2001). Is prosocial behaviour a good thing? Developmental changes in children’s evaluations of helping, sharing, cooperating, and comforting. British Journal of Developmental Psychology, 19, 349-367.

[2] ASPREA, A. M., & VILLONE BETOCCHI, G. (1993). Studi e ricerche sul comportamento prosociale. Napoli: Liguori Editore.

[3] JACKSON, M., & TISAK, S. (2001). Op. cit.

[4] ZAHN-WAXLER, C., & RADKE-YARROW, M. (1982). The development of altruism: alternative research strategies. In N. EISENBERG (Ed), The development of prosocial behavior, (pp. 109-137). New York, New York: Academic Press.

[5] BONINO, S., LO COCO, A., & TANI, F. (1998). Empatia. I processi di condivisione delle emozioni. Firenze: Giunti.

[6] ASPREA, A. M., & VILLONE BETOCCHI, G. (1993). Op. cit.

 

Ultimo aggiornamento dell’articolo: 29/01/2012

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